James Senese è morto all’età di 80 anni per una polmonite. Con lui se ne va uno dei più grandi protagonisti della musica italiana, simbolo assoluto di Napoli e voce internazionale della fusion mediterranea. Sassofonista, compositore, poeta del reale, Senese ha lasciato un segno indelebile non solo nella scena partenopea ma anche nel panorama mondiale, fondendo la rabbia del Sud con l’eleganza del jazz tramite la forza del suo inconfondibile timbro vocale e sassofonistico.
C’è un silenzio diverso, oggi, a Napoli. Un silenzio che sembra quasi trattenere il fiato, come se anche la città volesse rispettare il tempo di una pausa musicale. James Senese non c’è più. Ottant’anni di vita, di palco, di respiro e di fiato speso nel suo sax: la sua voce parallela, quella che parlava quando le parole non bastavano. È morto per una polmonite – quasi una nemesi per uno che respirava all’unisono col suo strumento – ma lascia dietro di sé un’eco che non si spegnerà mai.
James non è stato soltanto un musicista. È stato una sintesi vivente di ciò che Napoli è davvero: un incrocio di culture, di dolori, di ironia e di rabbia. Figlio di un soldato afroamericano e di una donna napoletana, nacque e crebbe tra diffidenze e contraddizioni, eppure seppe trasformare tutto questo in un linguaggio musicale nuovo, puro, inconfondibile.
Con i Napoli Centrale, James Senese cambiò le regole del gioco. Quando negli anni Settanta portò la fusion all’ombra del Vesuvio, il mondo non era pronto per quello che stava per ascoltare: una musica che mescolava jazz, funk, rock e sangue napoletano; una lingua che alternava la dolcezza e la ferocia, la poesia e la protesta. I suoi testi parlavano di disoccupazione, ingiustizia, emarginazione. Temi che oggi suonano ancora dolorosamente attuali. “Campagna”, “’A gente ’e Bucciano”, “Ngazzate nire”: erano canzoni, ma anche editoriali, urla, testimonianze.
Senese riusciva a fare di Napoli un punto di partenza, non di arrivo. Non si chiudeva nel folclore, non si accontentava dell’etichetta di “musicista napoletano”: voleva essere universale. E lo fu. Portò il suo sax e la sua voce ruvida nei festival internazionali, dialogò con musicisti di ogni latitudine, eppure ogni nota restava intrisa del suono di casa. Era Napoli che si raccontava al mondo, ma con dignità, con forza, con consapevolezza.
La sua musica non chiedeva compassione: pretendeva rispetto. Era l’espressione di chi ha conosciuto l’ingiustizia e ne ha tratto arte. Era l’urlo di chi sa che nascere a Napoli significa imparare a resistere, ma anche a sognare.
Negli ultimi anni James continuava a suonare con la stessa intensità di sempre. Lo ha fatto con dignità, anche quando le platee che lo ascoltavano erano piccole. Ogni concerto era un rito, un atto di devozione. Guardarlo sul palco significava assistere a un dialogo tra l’uomo e la città, tra il tempo e la memoria. C’era Napoli, certo, ma c’era anche il mondo, quello stesso mondo che per troppo tempo aveva ignorato le voci del Sud e che, grazie a lui, dovette ascoltarle.
Oggi, nel vuoto che lascia, resta la sua eredità: quella di aver dimostrato che la musica non ha confini, ma radici. E che da quelle radici, anche quando affondano nella fatica, può nascere qualcosa di immortale. James Senese non se ne va davvero. Continua a respirare nel suono dei sax che si alzano dalle strade, nei riff di chi prova a dire qualcosa di vero, nei ragazzi che ancora sognano una musica capace di cambiare il mondo.
Napoli gli deve molto, ma forse è il mondo intero a dovergli dire grazie. Per averci ricordato che la grandezza non nasce dal clamore, ma dal coraggio di restare autentici. Sempre.
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