Ci sono partite che, riviste oggi, sembrano studi di sociologia applicata più che eventi sportivi. Napoli-Brescia del 18 gennaio 1998 fu una di queste: novanta minuti per capire come si possa dire addio alla Serie A con largo anticipo e un certo stile, se così vogliamo chiamarlo. Giovanni Galeone, che salutiamo con rispetto e un pizzico di nostalgia, a Napoli provò a fare il professore di calcio in una scuola che aveva già perso il registro.
Quel giorno, al San Paolo, il suo Napoli venne spazzato via 0-3 dal Brescia di Paolo Ferrario: Pirlo (sì, proprio lui, che allora sembrava ancora uno studente in gita), Kozminski e Diana scrissero la pagella più crudele di quella stagione. A gennaio, il Napoli era già praticamente in B. Ma ci volle quella domenica per prenderne atto.
Galeone, teorico del bel gioco, si ritrovò a gestire una squadra che faticava a tenere il pallone… e, a volte, anche la dignità. Il povero Pino Taglialatela provava a mettere pezze, ma davanti a lui c’era un muro di sabbia. Massimiliano Allegri correva con la stessa gioia con cui si fa una dichiarazione dei redditi. E in attacco, per l’occasione, l’esordio del giovane Bruno, promosso dalla Primavera come simbolo di speranza: finirà poi a Brescia. Perché nella vita, a volte, la logica decide di farsi beffe di noi.

All’intervallo, Galeone cambiò mezza squadra, ma non il destino. Longo e Altomare dentro, Bruno fuori, e quando Scarlato entrò in campo al 53°, il Brescia ne approfittò per completare la lezione. Diana, al 95°, mise la firma finale: 0-3. Sipario. Poi arrivò la parte teatrale: sediolini in fiamme, San Paolo sotto assedio, e la squadra costretta a restare chiusa negli spogliatoi per ore.
Un’immagine perfetta, quasi poetica: i giocatori barricati dentro, la gente fuori a urlare e Galeone che probabilmente pensava a quanto fosse più rilassante insegnare calcio all’università che farlo a Fuorigrotta. Quella partita fu un piccolo capolavoro di disperazione organizzata, la prova che anche nel crollo il Napoli sa essere spettacolare.
Eppure, nel caos di quel pomeriggio, restò un segno umano: Galeone, con la sua aria da intellettuale del pallone, non smise mai di crederci. Anche quando attorno a lui bruciavano i sediolini. Oggi, ricordandolo, non possiamo che sorridere amaramente. Perché Galeone era così: troppo romantico per sopravvivere al calcio cinico degli anni ’90, troppo elegante per quel Napoli. Eppure, anche in quel disastro, ci mise il suo tocco. Perché se il Napoli doveva affondare, almeno lo fece con un po’ di filosofia.
Siamo sicuri che il buon Galeone, uomo acuto e capace di grande autoironia, non se la sarebbe presa per uno scritto apparentemente dissacrante ma che vuole essere un modo diverso per ricordarne la grandezza. Perché si diventa giganti anche cadendo. E lui lo ha fatto sapendosi poi rialzare. Ciao Giovanni.
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