C’è un vecchio adagio di George Orwell che recita: “In tempi di inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario”. Forse vale anche per il calcio, soprattutto quando il silenzio di un designatore pesa quanto un rigore fischiato.
Il copione è ormai collaudato
Il dirigente si lamenta. Lo fa con quella fermezza misurata da dirigente navigato, ma il messaggio arriva chiaro: l’arbitraggio non è piaciuto, e qualcuno deve “pagare”. Il designatore sospende il Reo. Non tanto per punire, quanto per “dare un segnale”. È il gesto rituale di un sistema che non comunica attraverso la parola, ma attraverso le esclusioni. Come scriveva Kafka, “la procedura sostituisce la verità”.
A quel punto il prossimo designato, mentre scende in campo, ha ancora nelle orecchie l’eco sordo della sospensione. È qui che accade il corto circuito: un rosso diventa giallo, un fallo netto diventa “intensità di gioco”, interpretazione delle quattro condizioni. Non per errore, ma per timore. Come direbbe Pirandello, “Così è (se vi pare)”.
E quando tutto sembra compiersi, ecco l’ultimo atto: il designatore benedice l’interpretazione delle quattro condizioni, la circolarità perfetta del potere che si autoassolve. Il discepolo timoroso diventa l’arbitro prudente e la prudenza, nel lessico dei vertici, si traduce in “buon senso”.
È un teatro antico, dove ogni gesto è simbolo e ogni fischio un atto politico. “Il calcio è la cosa più importante tra le cose meno importanti”, ricordava Arrigo Sacchi. Ma quando la paura entra in campo, anche la cosa meno importante finisce per pesare come una sentenza.
Così, tra sospensioni e rassicurazioni, il gioco continua. Solo che, a forza di guardarsi le spalle, qualcuno dimentica di guardare il pallone.