Nella seconda metà degli anni Venti del Duemila, il calcio si è pienamente adeguato ai tempi moderni: partite praticamente tutti i giorni e a quasi tutte le ore, pomeridiane e serali. Una manna per gli appassionati della palla che rotola, sia da divano che da stadio.
Ma nel secondo caso c’è una parte di persone pesantemente penalizzate: i diversamente abili, e in modo particolare i non deambulanti. Complice un sistema di accreditamento alle strutture macchinoso e, in alcuni casi, lacunoso nell’assegnare il tanto agognato titolo d’ingresso.
Se a questo si aggiunge che spesso vengono sistemati in settori ricavati in stadi obsoleti, la frittata è fatta. Da nord a sud, da est a ovest, è un problema che riguarda la stragrande maggioranza delle strutture italiane. Fanno eccezione solo gli impianti più moderni, come quelli di Udine, Torino (sponda Juve) e Bergamo, dove gli spazi per i disabili sono stati pensati e progettati con criteri umani e funzionali.
Milano e Torino (sponda granata) non sarebbero male, peccato per i tabelloni pubblicitari che tolgono almeno tre metri di visibilità del campo.
Al “Maradona” di Napoli, invece, ci vorrebbe un binocolo – e la speranza che quelli nel settore davanti restino seduti – altrimenti si va solo per ascoltare, non per vedere. Caso simile è quello dell’Olimpico di Roma, con postazioni a distanza siderale dal rettangolo di gioco.
Si potrebbe continuare a lungo, scoprendo che il problema coinvolge la quasi totalità degli stadi di Serie A. E più si scende di categoria, peggio è. Ora si confida in Euro 2032, che dovrebbe comportare una ristrutturazione totale di molti impianti vetusti, finalmente adeguandoli a standard moderni.
Un’altra riforma urgente riguarda la procedura di accesso agli stadi per i disabili: ogni società ha un metodo diverso, spesso macchinoso o, peggio, “di parte”, favorendo il proprio tifoso abituale. In molti casi non resta altro da fare che rassegnarsi e rinunciare. È una piccola percentuale di tifosi, poco rumorosa, ma che andrebbe tutelata. Ad oggi, purtroppo, non è così.