Chi mettiamo sul banco degli imputati questa settimana? Ah, Antonio Conte. L’uomo che non va mai bene a nessuno. Due pareggi a reti inviolate con Como ed Eintracht e subito il tribunale mediatico si riunisce in seduta straordinaria. Capo d’imputazione: “poca spregiudicatezza”. Pena richiesta: schierare “gente che osa”, cioè Noa Lang e David Neres.
Il Conte “eretico”
Eccoli, i nuovi rivoluzionari del pallone, che da questa settimana reclamano a gran voce Lang e Neres, due nomi che fino a ieri venivano trattati con lo stesso entusiasmo riservato a una cartella esattoriale.
L’olanese? “Un giocatore non da Napoli”.
Il brasiliano? “Fuori forma, non all’altezza delle prestazioni della scorsa stagione”.
Oggi, all’improvviso, diventano i messia del gioco d’attacco. Pare che nel calcio italiano la memoria duri meno di un contropiede ben riuscito.

Conte e il mercato dell’oblio
Per non parlare della la saga di Kevin De Bruyne, l’eresia tattica secondo gli “esperti”. Quando Conte lo ha voluto inserire, è stato accusato di voler smontare un orologio svizzero solo per curiosità. “Rischia di rompere gli equilibri”, dicevano.
Ora che il belga è ai box fino a febbraio, gli stessi luminari gridano alla tragedia greca per la “mancanza di qualità in mezzo al campo”. “L’ha voluto lui, non l’ha voluto lui” e chi blatera prima meglio alloggia. Si vede che il bicipite femorale di De Bruyne si è portato via anche la coerenza dei commentatori.
E che dire di Lukaku? Il mister lo volle con ostinazione, fu accusato di tutto, dal capriccio tecnico al peccato capitale della testardaggine. Oggi, naturalmente, è il giocatore più rimpianto dai suoi stessi detrattori, gli stessi che allora lo consideravano un “peso”.
Conte logora a prescindere
In Italia funziona così: prima ti ridicolizzano, poi ti rimpiangono, e infine ti spiegano dove avevi sbagliato. L’allenatore del Napoli, nel frattempo, continua a fare quello che ha sempre fatto: lavorare, costruire, e dire le cose come stanno, un peccato mortale in un ambiente dove è preferibile raccontare fiabe sulla “crescita del progetto” piuttosto che ammettere che serve tempo.
Sì, perché dichiarare che questa stagione sarebbe stata difficile, che sarebbe servita pazienza e che l’innesto delle nuove leve sarebbe passato dalla loro crescita, ovviamente, è stata presa per disfattismo e poca riconoscenza nei confronti dei sacrifici fatti dalla società in sede di campagna acquisti. Ora che i risultati ultimi rispecchiano ciò che aveva annunciato, lo accusano di “aver parlato troppo”.
Per Conte è così: un bersaglio comodo, perfetto per ogni stagione. Quando vince, “ha avuto fortuna”. Quando pareggia, “non osa”. Quando parla di un anno di transizione, “cerca scuse preventive”. Quando difende i suoi giocatori, “fa il vittimista”. E quando osa troppo, “rompe gli equilibri”.
Dopo il fuoco incrociato che arriva da stampa e opinionisti, non mi meraviglierei se fosse criticato anche quando calcherà la mano contro la solita brezza che soffia dalle pianure del Nord, quella che muove le foglie dei salotti buoni e i microfoni dei presidenti che sanno sempre da che parte tira il vento – purché sia verso casa loro.
In fondo, Antonio Conte è l’allenatore perfetto per il nostro calcio: lo si ama quando non c’è, lo si distrugge quando c’è, e lo si rimpiange quando se ne va. Il colpevole ideale, perché non sorride alle telecamere e non si mette il cappello da giullare nei talk show. E in un Paese dove la superficialità è sport nazionale, che colpa più grave di questa potrebbe mai esistere?