Diego Armando Maradona

Auguri Diego, l’uomo che trasformò il calcio in poesia

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Scritto da Pasquale Spirito

30 Ottobre 2025

Diego Armando Maradona, l’uomo in prestito al tempo e alla terra, un prescelto che prese il calcio ne riscrisse i codici e ne svelò la sua bellezza, riuscendo a distribuirla in maniera impalpabile e che il mondo, incredulo, scoprì essere irresistibile.

L’eletto della periferia più estrema di Lanus, figlio di un calcio che si nutriva dei piccoli campetti, degli spazi ritagliati tra i rifiuti o del fango secco delle spianate. Un bambino scalzo che palleggiava con un pallone di stracci, senza ossessioni né regole di punteggio. Senza ricami.

Dove la partita era uno scenario prediletto, ma non di quelle consone: non aveva né un inizio né una fine ben precisa, nella quale non si raccontavano vinti o vincitori, dove contava il tunnel, l’improvvisazione, la furbata rispetto al gol e alla vittoria.

Diego portò con sé quell’infanzia, e non la tradì mai. A volte basta una foto, uno scatto ispirato, per eternare una passione, per racchiudere un mondo, sotto forma di prosa, di poesia, il suo universo lo divideva in due mondi: il calcio e la libertà di esprimersi come meglio credeva, quella che forse noi gente comune non possiamo più concederci.

Mondi che con lui riuscirono a incontrarsi, fondersi, diventare popolari.
Popolare come un idilliaco immaginario che lo ritraeva seduto sulla panca di uno spogliatoio, con il sacro rituale della vestizione, dove sul finire dell’allaccio degli scarpini annusava l’umore dei suoi compagni e già lanciava la sua sfida assaporandone i contenuti.

Il segnale che precedeva il campo, questione di istanti, armato dei suoi dribbling, delle sue finte che divoravano i suoi avversari. Il pallone era divertimento, gratificazione, poi divenuto lo strumento per primeggiare, per distinguersi, un rapporto divenuto sensuale che ha reso visibile sotto forma di gioia ai nostri occhi ammaliati.

Il calcio sopravvive anche all’abbandono dei più grandi, sa sempre come rigenerarsi, ma il cortocircuito delle emozioni innescate dal suo divino ha frazionato questo sport in due ere geologiche, quella prima e dopo Diego Maradona. Il talento argentino ha incarnato la perfezione, lo spessore, il carisma, la meraviglia di rendere semplice ogni giocata, di pensarla, partorirla, con la naturalezza di un pianista che suona ad orecchio.

La continua ricerca di scomodare la sfera divina che provava, invano, a comprenderne l’essenza. Momenti che sconfinavano nell’inspiegabile, che catalogavano il suo estro ad appartenere alla ristretta élite dei più grandi; coloro che erano dispensati dalle leggi della fisica, che creavano giocate come un’opera pittorica, che sanno scoprire, creare calcio perché pensano ad un colpo vincente che altri nemmeno riescono ad immaginare. Un pallone influenzato dalla propria volontà. Un calciatore che giocava la palla e giocava con essa, un domatore, un raffinato illusionista che ogni volta rinnovava la su magia.

Un calcio autentico, funambolico, geniale, al quale si esponeva anche provocatoriamente sui media per decifrarne il linguaggio, i segni, con il stile espressivo, con l’intuizione del fuoriclasse, con il coraggio di frantumare le regole imposte dal sistema, senza paura di intraprendere battaglie scomode e strade tortuose.

L’uomo non sarà ricordato per la sua impeccabile biografia, bensì di chi si è caricato sulle proprie spalle la rabbia e l’insofferenza dei più deboli, le lacrime degli ultimi e dato voce a chi non ne aveva illuminandoli della sua immensità e della sua generosa passione che trasmetteva sul rettangolo verde e che lo portato a lasciare il segno nella testa e nel cuore delle persone.

“I vizi arrivano come passeggeri
Ci visitano come ospiti
e rimangono come padroni”

Confucio – filosofo cinese


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Diego Armando Maradona, l’uomo in prestito al tempo e alla terra, un prescelto che prese il calcio ne riscrisse i codici e ne svelò la sua bellezza, riuscendo a distribuirla in maniera impalpabile e che il mondo, incredulo, scoprì essere irresistibile.

L’eletto della periferia più estrema di Lanus, figlio di un calcio che si nutriva dei piccoli campetti, degli spazi ritagliati tra i rifiuti o del fango secco delle spianate. Un bambino scalzo che palleggiava con un pallone di stracci, senza ossessioni né regole di punteggio. Senza ricami.

Dove la partita era uno scenario prediletto, ma non di quelle consone: non aveva né un inizio né una fine ben precisa, nella quale non si raccontavano vinti o vincitori, dove contava il tunnel, l’improvvisazione, la furbata rispetto al gol e alla vittoria.

Diego portò con sé quell’infanzia, e non la tradì mai. A volte basta una foto, uno scatto ispirato, per eternare una passione, per racchiudere un mondo, sotto forma di prosa, di poesia, il suo universo lo divideva in due mondi: il calcio e la libertà di esprimersi come meglio credeva, quella che forse noi gente comune non possiamo più concederci.

Mondi che con lui riuscirono a incontrarsi, fondersi, diventare popolari.
Popolare come un idilliaco immaginario che lo ritraeva seduto sulla panca di uno spogliatoio, con il sacro rituale della vestizione, dove sul finire dell’allaccio degli scarpini annusava l’umore dei suoi compagni e già lanciava la sua sfida assaporandone i contenuti.

Il segnale che precedeva il campo, questione di istanti, armato dei suoi dribbling, delle sue finte che divoravano i suoi avversari. Il pallone era divertimento, gratificazione, poi divenuto lo strumento per primeggiare, per distinguersi, un rapporto divenuto sensuale che ha reso visibile sotto forma di gioia ai nostri occhi ammaliati.

Il calcio sopravvive anche all’abbandono dei più grandi, sa sempre come rigenerarsi, ma il cortocircuito delle emozioni innescate dal suo divino ha frazionato questo sport in due ere geologiche, quella prima e dopo Diego Maradona. Il talento argentino ha incarnato la perfezione, lo spessore, il carisma, la meraviglia di rendere semplice ogni giocata, di pensarla, partorirla, con la naturalezza di un pianista che suona ad orecchio.

La continua ricerca di scomodare la sfera divina che provava, invano, a comprenderne l’essenza. Momenti che sconfinavano nell’inspiegabile, che catalogavano il suo estro ad appartenere alla ristretta élite dei più grandi; coloro che erano dispensati dalle leggi della fisica, che creavano giocate come un’opera pittorica, che sanno scoprire, creare calcio perché pensano ad un colpo vincente che altri nemmeno riescono ad immaginare. Un pallone influenzato dalla propria volontà. Un calciatore che giocava la palla e giocava con essa, un domatore, un raffinato illusionista che ogni volta rinnovava la su magia.

Un calcio autentico, funambolico, geniale, al quale si esponeva anche provocatoriamente sui media per decifrarne il linguaggio, i segni, con il stile espressivo, con l’intuizione del fuoriclasse, con il coraggio di frantumare le regole imposte dal sistema, senza paura di intraprendere battaglie scomode e strade tortuose.

L’uomo non sarà ricordato per la sua impeccabile biografia, bensì di chi si è caricato sulle proprie spalle la rabbia e l’insofferenza dei più deboli, le lacrime degli ultimi e dato voce a chi non ne aveva illuminandoli della sua immensità e della sua generosa passione che trasmetteva sul rettangolo verde e che lo portato a lasciare il segno nella testa e nel cuore delle persone.

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