C’è un limite sottile, sempre più fragile, tra il mestiere del giornalista sportivo e la passione che lo muove. La vicenda dei due stagisti sospesi da Sky per aver esultato – lontano dalle telecamere ma ripresi da un riflesso beffardo – dopo il gol all’ultimo istante dell’Inter contro il Verona, è l’ennesima dimostrazione di quanto il sistema mediatico moderno sia intrappolato nelle proprie contraddizioni.
Ogni essere umano, prima ancora che professionista, è mosso da pulsioni, emozioni, slanci. E chi lavora nel mondo del calcio, immerso quotidianamente in storie di tifo e adrenalina, non può essere trattato come un automa asettico, privo di sentimenti. Non stiamo parlando di un’esultanza in diretta, di un atto che abbia compromesso la neutralità di un racconto pubblico: parliamo di una reazione umana, spontanea, avvenuta in un contesto certamente non pubblico. Punirla significa dimenticare che dietro un microfono o una telecamera non ci sono macchine, ma persone.
Eppure il direttore di Sky Sport, Federico Ferri, ha scelto la via del provvedimento immediato, quasi “di pancia”, più per placare il rumore dei social e le polemiche dei soliti indignati che per vera convinzione. Una sospensione che sa tanto di risposta reattiva a un’onda mediatica più che di decisione ponderata. Perché oggi, nel mondo dell’informazione sportiva, la parola chiave non è più “rigore professionale”, ma “percezione”. E se la percezione si infiamma, la direzione si piega.
C’è però una riflessione più ampia che questa storia mette in moto: quella sul ruolo del giornalista tifoso, una figura che le stesse televisioni – Sky compresa – hanno ormai sdoganato da anni. Inutile far nomi ma è chiaro che molti giornalisti e parecchi opinionisti da salotto rivendicano apertamente il proprio cuore sportivo. Il giornalismo calcistico è diventato sempre più “identitario”, costruito sul legame emotivo con una tifoseria. È la legge dell’engagement: fidelizzare il pubblico parlando la sua lingua, facendolo sentire rappresentato.
Ma se questo è il modello che si promuove più o meno velatamente a reti unificate, allora diventa quantomeno incoerente punire due ragazzi che hanno semplicemente reagito da tifosi, lontano da ogni palco e da ogni microfono. Non c’è nulla di “scandaloso” nell’emozione, se non la pretesa ipocrita di chi finge di non provarla.
La verità è che oggi il calcio vive di sentimenti estremi e l’informazione che lo racconta si muove nello stesso territorio emotivo. Chiedere freddezza assoluta a chi cresce e lavora in quell’ambiente è un paradosso. Forse, più che sospendere due stagisti (a tempo determinato), sarebbe il caso di interrogarsi su quanto la comunicazione sportiva sia diventata un palcoscenico di maschere e convenzioni, dove la spontaneità è concessa solo se fa comodo alla narrazione dominante.
Dietro quei due ragazzi senza volto non c’è solo un errore di valutazione, ma l’immagine di un sistema che ha paura della propria umanità. E allora, se davvero vogliamo un giornalismo più credibile, cominciamo a distinguere tra la passione che rende vivi e l’interesse che rende falsi. Perché la neutralità non nasce dall’assenza di tifo, ma dall’onestà con cui si riconosce di averne uno.