Napoli non è solo calcio. Napoli è teatro, è tragedia, è commedia. E dentro questa grande rappresentazione che ricorda Palepoli, glorioso album degli Osanna, c’è una confraternita che da anni recita sempre la stessa parte: la “setta del bilancio”. Una congrega informe, non troppo silenziosa, armata non di sciarpe e bandiere ma di calcolatrici e visure camerali, che non tifa per un dribbling o per un assist, ma per il pareggio… di bilancio. Battuta banale? Forse, ma necessaria.
Premessa. tutelare i conti del club è una necessità che non va mai messa in discussione. Il virtuosismo finanziario è l’espediente che ha permesso al Napoli di Aurelio De Laurentiis di scalare le vette superando club dalla gestione dissoluta e che oggi cercano di scimmiottare un paradigma vincente provando a risanare i conti con manovre non sempre intellegibili. Proprio perché il Napoli ha raggiunto una solidità fiscale totale, oggi può permettersi il lusso – o lo sfizio, chiamatelo come va pare – di ingaggiare una tipologia di calciatore che anni fa mai avrebbe potuto metter piede all’ombra del Vesuvio. Il primo è stato il tanto vituperato – ma imprescindibile – Romelu Lukaku che ha preceduto una stella ancora più luminosa.
Kevin De Bruyne: l’ossessione dei contabili del calcio
Per i monaci contabili della curva del bilancio, Kevin De Bruyne non è un campione: è un peccato mortale. Il belga rappresenta la violazione del dogma fondativo: non si spende, non si rischia, non si osa. Ogni passo oltre l’austerità è visto come un sacrilegio, ogni investimento come un tradimento della fede. E allora ecco il rituale avviatosi con Big Rom e che quest’anno rischia di ripetersi nonostante abbia sementito anche il più integerrimo e zelante dei revisori: De Bruyne non viene atteso per esaltarsi ai suoi cross tagliati o ai suoi inserimenti letali, ma per assistere alla sua caduta. Per loro l’assist perfetto non è quello in campo, ma quello che porta dritto alla frase liberatoria: “Avevamo ragione noi”.
Non aspettano – alcuni, non tutti – i suoi lanci millimetrici, ma il suo primo affaticamento muscolare. Non bramano il suo primo gol, ma il suo primo stop o la prima partita leggermente sottotono. È una liturgia del fallimento: si inginocchiano davanti al tabellone, non quello luminoso dello stadio, ma quello del bilancio. Per loro il Napoli non è una squadra: è un Excel in 11 colonne.
E così, paradossalmente, il vero trionfo non sarebbe uno scudetto – il secondo di fila – vinto grazie al biondino di Drongen, ma un’operazione andata a rotoli. Sarebbe il nirvana, la loro illuminazione spirituale: il giorno in cui il belga crolla e i numeri finalmente tornano ad allinearsi con il dogma. Non il boato del gol, ma il sospiro di sollievo per un investimento “che non si doveva fare”. Sì, è una forzatura, è un’immagine volutamente surreale. Ma a volte servono panorami analoghi per evidenziare le storture cui stiamo assistendo in questo scorcio iniziale di stagione nella quale – udite udite – Kevin è comunque il calciatore più prolifico della squadra in termini di segnature. Beffardo, no?
La loro fede è granitica, quasi religiosa: meglio un Napoli anonimo ma in attivo, che un Napoli competitivo ma colpevole di aver speso. Meglio il rigore della cassa che l’irregolarità del sogno. È una filosofia da convento, da chiostro, con i tifosi ridotti a frati penitenti che recitano: “Non indurci in debito, ma liberaci dal fuoriclasse”.

Il problema è che il calcio, specialmente a Napoli, non è un rendiconto notarile. È gioia, rischio, esagerazione. È l’urlo del San Paolo (mi perdoni Diego, ma non sempre riesco a identificare il tempio con la nuova toponomastica) che vibra nelle ossa, non il ticchettare di dita sulla calcolatrice che fa quadrare i conti. Ma questa setta eterogenea non lo capisce: preferisce un’eterna quaresima calcistica, fatta di prudenza e astinenza, piuttosto che la possibilità di cadere peccando di grandezza.
E se De Bruyne invece dovesse funzionare davvero? Se diventasse l’architetto delle notti europee, il cervello che accende una città intera, il leader che porta il Napoli a guardare dritto negli occhi le big d’Europa? Allora la chiesuola pagana sarebbe costretta al martirio: dover gioire controvoglia, sputare champagne mentre in cuor loro avrebbero voluto acqua frizzante, applaudire ciò che hanno sovente definito come struttura procedurale. Gli stessi che ancora oggi, nelle loro silenziose camere, continuano a rodersi per la sfacciata preponderanza di Lukaku.
Ecco la vera paura dei monaci contabili: non che De Bruyne fallisca, ma che abbia successo. Perché se trionfa, cade l’intera impalcatura ideologica. E senza la loro religione del risparmio, senza il loro nirvana del bilancio, questi tifosi resteranno nudi di fronte all’unica verità che conta: il calcio non si gioca con le calcolatrici, ma con i piedi, il cuore e il cervello.
Crediti foto: SSC Napoli