Essere l’attaccante di riserva nel Napoli di Antonio Conte sembra quasi una condanna. Un ruolo mai marginale che nel caso di specie si è fatto terribilmente complesso. Lo sa bene Giovanni Simeone, che un anno fa arrancava dietro Romelu Lukaku, totem e feticcio del trainer salentino, in una stagione gloriosa per il club ma avara di soddisfazioni per l’argentino che si barcamenava tra pochi minuti giocati e tante difficoltà. Non incideva, non segnava, e quando toccava palla sembrava prigioniero di un nervosismo che gli toglieva lucidità e misura. Eppure, oggi, lontano da Napoli e con addosso la maglia granata del Torino, lo stesso Simeone è tornato a sorridere e – ironia di un destino che sa essere sempre particolarmente beffardo – ha punito proprio la sua ex squadra, condannandola alla seconda sconfitta in campionato dopo quella di Milano.
Il calcio, si sa, ha una memoria corta ma una logica spietata. Lo stesso destino che un anno fa toccava all’argentino oggi sembra aver inghiottito Lorenzo Lucca, arrivato con entusiasmo e fiducia, voluto espressamente da Conte per fare il vice di un centravanti totale come Big Rom. Ma i primi mesi dell’avventura azzurra hanno mostrato un ragazzo smarrito, impacciato, incapace di entrare davvero nel flusso del gioco. Lucca fatica a determinare, a imporsi, a trovare il proprio posto in un sistema che esalta la verticalità, la corsa e la cattiveria agonistica. In altre parole, fatica a essere “contiano”.
Il Nove di riserva, un compito difficile sotto la guida Conte
E allora la domanda emerge netta: perché è così difficile fare l’attaccante di riserva nel Napoli di Conte? La risposta, come spesso accade, non è una sola. Conte costruisce le sue squadre attorno a principi chiari, solidi, e a una gerarchia interna quasi militare. Il suo centravanti titolare non è soltanto un finalizzatore, ma il punto di riferimento su cui ruota l’intera fase offensiva. Lukaku – o Rasmus Hojlund che l’ha sostituito – è il primo a pressare, il primo a fare a sportellate, il primo a dettare la profondità. È lui che apre gli spazi, che tiene la linea difensiva avversaria in costante tensione, che interpreta ogni pallone come fosse l’ultimo della sua carriera.
In questo contesto, chi lo sostituisce deve saper replicare quell’intensità, quella ferocia, quella fame. Ma senza il ritmo gara, senza la fiducia data dai minuti e con la pressione di dover incidere subito, il compito diventa quasi impossibile. È un po’ come chiedere a un chitarrista di entrare a metà concerto ed eseguire l’assolo chiave senza aver letto per bene lo spartito. E poi ci sono le caratteristiche. Lucca è un ariete da oltre due metri, preferisce giocare col viso rivolto alla porta, non dando le spalle a essa. Andrebbe servito coi cross dal fondo o con traversoni tagliati per la sua testa letale. Cose che si vedono poco con il 4-1-4-1 che sta caratterizzando questa prima fase della campagna sportiva. L’ex Udinese potrebbe godere di due ali come Neres e Lang, ma in questo momento storico Conte non vede questo assetto tattico come quello premiante. E Lorenzo fatica. Maledettamente.
Simeone, nel suo ultimo anno a Napoli, ha pagato l’impossibilità di essere se stesso. Ogni volta che entrava, era costretto a vivere di scampoli di gioco, di spezzoni privi di continuità, in un contesto emotivo complicato e tatticamente rigido. Non a caso, una volta ritrovato un ambiente più “umano”, con meno aspettative e più spazio per sbagliare, è tornato il giocatore che tutti ricordavano: grinta, istinto, gol pesanti. E belli.
Lucca sta attraversando la stessa parabola, ma con una difficoltà in più: deve ancora diventare davvero un giocatore di livello europeo. Ha potenza, stazza e una tecnica grezza che va affinata, ma nel Napoli di Conte la pazienza non è contemplata. Chi entra deve rispondere subito presente, altrimenti scivola ai margini.
Forse Conte dovrà riflettere su questo punto. Perché il Napoli non può permettersi di avere un attaccante di riserva invisibile, costretto a guardare il mondo da bordo campo senza sentirsi parte della squadra. Un piano B serve non solo per dare fiato al titolare, ma anche per cambiare volto alla partita, per offrire varianti e alternative. E se l’uomo che dovrebbe farlo entra in campo già con il peso del confronto sulle spalle, il rischio è che il suo fallimento diventi una profezia che si autoavvera.
Simeone insegna che il talento non sparisce, semplicemente soffoca se messo nel contesto sbagliato. Lucca, invece, deve ancora dimostrare di poter respirare a pieno dentro il mondo di Conte. Ma una cosa è certa: a Napoli, fare il vice non è un mestiere. È una prova di sopravvivenza. Quindi serve una reazione da parte del calciatore che, quando ingaggiato, sapeva perfettamente a cosa andava incontro. Per quanto riguarda tifosi e narratori sarebbe necessaria un po’ più di indulgenza. Ovviamente senza la pretesa di annullare il diritto di critica.
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