In Italia si parla di arbitri (e rigori) più di quanto si parli di calcio giocato. È una malattia antica, ma negli ultimi tempi è diventata cronica e senza cure apparenti. Ogni episodio controverso viene ingigantito, sezionato e moltiplicato da un ecosistema mediatico e digitale che vive di tensione, sospetto e indignazione. Dinamiche tossiche ma molto utili per produrre click e profitti. Il risultato è un clima intossicato che finisce per condizionare proprio chi, in campo, dovrebbe agire con serenità e lucidità: l’arbitro.
È questo, oggi, il vero paradosso del piagnisteo: più si urla, più si protesta, meno si ottiene. La paura di sbagliare – o, peggio, di essere travolti dal dibattito – porta i direttori di gara a non decidere, a rinunciare al proprio istinto, a rifugiarsi nel silenzio del “non fischio”, a paraventarsi dietro il VAR il cui protocollo di applicazione resta materia per enigmisti.

Un clima che altera il giudizio
Gli esempi più recenti parlano da soli. In Inter-Fiorentina, due episodi clamorosi in area – le trattenute di Comuzzo – sarebbero dovuti costare altrettanti calci di rigore. Eppure, nulla. La stessa indecisione si è vista in Milan-Napoli, con due situazioni in cui gli azzurri avrebbero avuto più di una ragione per attendersi l’intervento del VAR per falli netti su Lucca e McTominay. SI potrebbero citare decine e decine di episodi ma ci si limita a questi per esigenza di brevità.
È la fotografia di un arbitraggio non più sereno, schiacciato da un contesto che ne mina l’autorità. Gli arbitri oggi hanno paura di essere “troppo concessivi”, soprattutto dopo giorni di polemiche che sorgono in tribune virtuali che hanno trasformato ogni fischio in un verdetto politico.
Tutto nasce da un clima di sfiducia costruito artificialmente. Dopo Inter-Napoli, quando ai partenopei fu assegnato un rigore sacrosanto, il dibattito mediatico si è trasformato in una campagna per delegittimare quella decisione. Alcuni opinionisti – più attenti al clamore che alla verità – hanno cercato di riscrivere la realtà, insinuando che il contatto netto non fosse da rigore.
Così, la volta successiva, chi si trova a dover decidere in area di rigore teme il linciaggio mediatico. E l’effetto è devastante: per evitare accuse di parzialità, si finisce per commettere errori di omissione. In altre parole, si sbaglia per paura.
Gli “esperti” del web e il veleno dei social
A peggiorare il quadro contribuisce un fenomeno ormai quotidiano: la sovraesposizione di sedicenti esperti che imperversano sui social e nei talk sportivi con analisi improvvisate e toni da tribunale. È un meccanismo che genera attenzione, like e visualizzazioni, ma che non produce competenza.
Le loro “lezioncine” alimentano un clima di diffidenza verso le istituzioni e spingono il tifoso medio a credere che tutto sia manipolato. Si tratta di un veleno sottile, che lentamente corrode il rapporto tra calcio e giustizia sportiva, fino a rendere impossibile qualsiasi equilibrio.

Una dirigenza arbitrale smarrita
Sul banco degli imputati, però, non ci sono solo i commentatori da tastiera. La gestione della classe arbitrale da parte di Gianluca Rocchi appare incerta, priva di una linea univoca. Mancano chiarezza, comunicazione e una filosofia condivisa.
La direzione degli arbitri dovrebbe essere accompagnata da una guida forte, capace di fissare parametri riconoscibili e di difendere i propri uomini nei momenti di pressione. Invece, ogni settimana assistiamo a interpretazioni contrastanti e a interventi discontinui del VAR, che invece di dissipare i dubbi li moltiplica.
Accettare i rigori: il nodo culturale
Il problema, in fondo, è culturale. Finché l’Italia calcistica continuerà a vivere nell’ossessione del torto subito, nessuna riforma o tecnologia potrà restituire serenità al giudizio. Le proteste infinite, i comunicati delle società, le accuse reciproche dei tesserati e le trasmissioni costruite sul sospetto creano un circuito vizioso in cui tutti perdono.
Chi chiede rigore – nel senso etico prima ancora che tecnico – dovrebbe essere il primo a praticarlo. E invece il calcio italiano si rifugia nell’eterno vittimismo, dimenticando che il rispetto dell’arbitro è parte integrante del gioco. Il paradosso del piagnisteo è tutto qui: più si grida all’ingiustizia, più si allontana la giustizia stessa. Gli arbitri, stretti tra la paura di sbagliare e la gogna mediatica, non sono più liberi di decidere. E un calcio senza arbitri liberi non è un calcio credibile.
Solo quando il rumore si spegnerà e la cultura del sospetto lascerà spazio a quella della competenza, potremo tornare a parlare di errori e non di complotti. Fino ad allora, ogni rigore negato sarà solo l’ennesimo sintomo di un sistema che ha smesso di fidarsi di sé stesso.
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