Ieri pomeriggio, in una soleggiata Bologna, il Napoli non ha semplicemente perso una partita. Ha perso la propria direzione. Antonio Conte, nel dopogara, ha parlato come un uomo che guarda il mare e non riconosce più la sua nave. Non è più il condottiero che urla ordini dal ponte di comando: è il capitano che si chiede se valga ancora la pena restare a bordo. Ma tra le righe del suo sfogo, dietro l’amarezza, resta anche il barlume di una possibilità: che le sue parole siano una scossa brutale, un tentativo di risvegliare un gruppo che sembra aver smarrito ogni orgoglio.
“Cinque sconfitte da inizio anno sono troppe”, ha detto il trainer salentino in conferenza stampa. “Quando perdi non è mai un caso. Ho cercato di trasferire il mio pensiero ai più vecchi, ma non ci sono riuscito”. Un’ammissione di impotenza che pesa e spaventa. Eppure non è solo autocritica: è anche un’accusa, lucida e durissima, a chi nello spogliatoio ha spento la luce dopo lo scudetto, a chi si accontenta del “compitino” mentre il fuoco del gruppo si spegne lentamente.

Napoli: un morto che cammina?
“Mi dispiace perché significa che non sto facendo un buon lavoro”, aggiunge Conte, “perché non sono entrato nelle teste dei giocatori. È giusto che il club lo sappia. Qualcosa bisogna fare, perché non ho voglia di accompagnare un morto”. L’immagine è tremenda, eppure perfetta: la fotografia di un allenatore che non si arrende all’idea di dover viaggiare su una nave fantasma.
“Accompagnare un morto” non è una frase detta a caso. È un avvertimento. E anche una sfida: o il Napoli ritrova il suo battito, o non basteranno più neppure i richiami di Conte per rimettere in rotta una squadra che pare priva di bussola.
Il tecnico non si nasconde dietro l’alibi dei numeri, né dietro la forza dell’avversario. “Complimenti al Bologna che ci ha battuto su tutto”, dice. E in quelle parole non c’è ironia, ma un senso di resa. “Nel calcio il compitino non basta. Ci vuole cuore e passione, il Bologna ne ha dimostrato a bizzeffe rispetto a noi”. Lì, nella differenza tra chi lotta per costruire un sogno e chi gioca solo per dovere, sta tutto il dramma del Napoli di quest’anno: una squadra che ha dimenticato di essere viva.

Napoli: cosa succede dentro e fuori lo spogliatoio?
Conte ha toccato corde delicate, parlando di “dinamiche extracalcistiche”, che in realtà non hanno nulla a che vedere con contratti o dirigenti, ma con l’anima del gruppo. “Parlo di cuore, passione, entusiasmo, voglia. Quest’anno stiamo facendo molta fatica perché non siamo squadra. Mi prendo tutta la responsabilità, ma diventa difficile se non riesci a entrare nel cuore dei giocatori. Trapianti di cuore non si possono fare”. Una frase così, detta da Conte, ha il sapore di un’ammissione di fallimento, ma anche di una dichiarazione di guerra.
Perché Conte non è tipo da tirare i remi in barca: se parla di “trapianti di cuore”, è perché sa che il problema non è tattico, non è fisico, ma umano. E in questa dimensione umana, lui, più di ogni altro, costruisce i suoi successi. Ma proprio l’essere caduti in questo baratro motivazionale rappresenta una sconfitta per un uomo che della determinazione e della tenacia ha fatto una bandiera professionale.
Il Napoli che Conte descrive è una squadra svuotata, prigioniera dei propri fantasmi, dove “ognuno pensa al suo orticello” e dove “non c’è più alchimia”. Parole che fanno male, perché cancellano l’immagine della banda scudettata che pochi mesi fa illuminava l’Italia con la sua leggerezza e la sua fame. Oggi quella fame non c’è più, e nemmeno Conte – con la sua ossessione per la fatica e il sacrificio – è riuscito a riaccenderla. Anche per responsabilità sua, bisogna essere onesti. La gestione delle rotazioni è deficitaria e crea malumori ormai deflagrati. Il mercato è sconfessato dallo stesso mister che lo ha avallato e diretto in coabitazione con Giovanni Manna.

E allora la domanda diventa inevitabile: Conte ha gettato la spugna o ha scelto di incendiare l’aria per costringere tutti a reagire? Il suo “ne parlerò col club” suona come un bivio. Da una parte c’è la via della rottura: un Napoli che implode, allenatore e società che si guardano con sospetto. Dall’altra c’è la via del risveglio: il messaggio disperato di un comandante che, vedendo la ciurma addormentata, la scuote con l’unico linguaggio che conosce, quello del dolore e della verità.
La realtà è che il Napoli oggi è un gruppo che non si riconosce più. Ha perso la fame, la cattiveria, la spinta emotiva che l’anno scorso lo rendeva invincibile. È tornato fragile, umano, e Conte lo percepisce più di chiunque altro visto che vive e respira l’aria di Castel Volturno. Quando un allenatore parla di “morto”, di “cuore mancante”, di “giocatori chiusi nei propri problemi”, non lancia solo un messaggio tecnico: lancia un SOS. E forse spera che qualcuno, dentro lo spogliatoio, lo raccolga.
Conte si assume le colpe, come fa sempre. Ma tra le righe si intuisce la stanchezza di chi non riesce più a trovare interlocutori, di chi sente che le sue parole si perdono nel vuoto. Forse non è ancora l’addio. Ma è qualcosa che gli somiglia. Perché quando Antonio Conte smette di proteggere i suoi giocatori e parla come un uomo solo al comando, vuol dire che la crepa è profonda. Ora bisogna capire se è insanabile.
A Bologna il Napoli ha toccato il fondo, e il suo allenatore lo ha detto senza filtri: “Non posso proteggere nessuno”. Non è una condanna, è una resa parziale. O forse l’ultima possibilità di salvezza: distruggere le certezze per ricostruire dalle macerie. Conte non accompagna i morti. O li risveglia, o scende lui per primo dalla nave. E oggi, guardandolo negli occhi, è difficile capire quale delle due strade abbia scelto.